Lui è

Valerio

La separazione è una di quelle cose che si tende a vivere con sofferenza e riluttanza ma talvolta può anche essere l’innesco di un nuovo inizio, di una rinascita.

La mia storia inizia 18 anni prima della mia amputazione.

All’età di 16 anni ho iniziato ad avvertire un forte dolore al piede, una scossa elettrica che scattava alla minima sollecitazione; sono stato visitato da medici in tutta Italia e anche all’estero e tutti convenivano sul fatto che non ci fosse nulla che scatenasse tali fitte di dolore e che tutto fosse frutto della mia immaginazione. Del resto il dolore è una sensazione intangibile e non quantificabile, solo chi lo prova può capirlo in fondo…

Questa condizione di sofferenza continua era come un parassita che prosciugava la mia forza vitale, una gabbia che mi impediva di spiccare il volo e realizzarmi appieno come individuo. La rassegnazione non è arrivata subito, per più di 10 anni ho cercato di trovare una soluzione, tra interventi e farmaci ma nulla riusciva a lenire la mia sofferenza. Ad un certo punto, accettai la sofferenza come compagna di vita, imparai a tollerare il dolore, cercando di avere una vita il più possibile “normale”, avevo perso fiducia nella medicina e non volevo sentirne più parlare, ero stanco di sentirmi dire che ero pazzo o che avrei dovuto affrontare interventi chirurgici pericolosi che avrebbero potuto rendermi paraplegico, fino a quando,  nel 2020 mio zio mi parlò di un ortopedico che l’aveva aiutato con un problema al piede senza ricorrere alla chirurgia.

Mosso dalla fiducia nel giudizio di mio zio ma anche dal fatto che la situazione stava velocemente peggiorando nel passare del tempo, mi armai di coraggio e feci le lastre e la risonanza magnetica per la visita medica. I referti parlavano di una distruzione delle ossa del metatarso, non riuscivo a capire come fosse possibile che le ossa potessero distruggersi senza dei traumi, mi sembrava pura fantascienza, sentivo un’inquietitudine crescere nel profondo del mio cuore, come se fossi consapevole di quello che a breve avrei scoperto…

Il giorno della visita arrivò, come prima cosa la dottoressa prese visione della risonanza magnetica ed alla sua vista trasalì, mi disse di rivolgermi immediatamente al Pini-CTO di Milano per fare una biopsia al piede, perché il problema non era più solo ortopedico.

Paura e sgomento presero il sopravvento, avevamo capito che ormai si trattava di una corsa contro il tempo e fortunatamente, nonostante nel mondo si iniziasse a parlare di Wuhan e del Coronavirus, riuscì nel giro di pochi giorni ad avere un appuntamento con il primario di oncologia ortopedica del pini e a fissare la biopsia.

L’intervento non fu indolore, fui dimesso il giorno successivo alla biopsia ed ebbi una brutta emorragia, da quel momento fui incapace di poggiare il piede a terra.
Tornai in Sicilia pochi giorni dopo, il piede era gonfio e nero, quasi inumano, i giorni passavano e l’ansia cresceva, la mia mente vaglia a qualsiasi scenario possibile e l’amputazione era uno di quelli.

Giorno 9 marzo, l’Italia veniva messa in Lockdown ed io ricevetti la chiamata che tanto aspettavo: il medico che mi contattò non volle darmi l’esito della biopsia, mi disse di presentarmi giorno 13 in ospedale per parlarne di presenza e, se avessi acconsentito, di operarmi giorno 17. Trovare un volo per Milano fu un impresa incredibile ma anche questa volta tutto si mosse in maniera tale da farmi arrivare senza troppi inconvenienti.

La mattina del 13 marzo, trovai una bottiglia di prosecco nel balcone del b&b dove mi trovavo, la presi e la misi in frigo a raffreddarsi, vedendolo come un segno di buon auspicio, del resto stavo per scoprire la causa della mia sofferenza degli ultimi 18 anni. Arriva il momento del colloquio con il primario, insieme a lui altri 5 medici alquanto tesi, come se fossero pronti ad intervenire da un momento all’altro; mi dice che ho un sarcoma rarissimo, un sarcoma sinoviale, molto esteso e che ha ridotto in poltiglia gran parte del mio piede ma fortunatamente non ci sono metastasi. Visto la situazione l’unica cosa da fare è amputare il piede 5 dita sopra la caviglia. L’istante che susseguì alla notizia mi parve durare una vita intera, nella tragedia vidi un’opportunità, l’occasione di continuare a vivere e di liberarmi una volta per tutte dal dolore! Senza battere ciglio diedi il mio consenso all’operazione e rientrato al b&b stappai la bottiglia di prosecco e brindai alla vita e alle nuove opportunità, un Brindisi un po’ salato, non lo nego, per via delle lacrime che attraversavano il mio viso.…

L’amputazione andò bene, dovetti lasciare dopo pochissimi giorni l’ospedale a causa dei primi casi di Covid, contrarre il virus in quel momento poteva essermi fatale. Passai tre settimane in un bivani in affitto vicino l’ospedale, accudito da mia sorella. Non sono stati giorni facili ma decisi di affrontarli con il sorriso, del resto la mia famiglia, i miei affetti erano in Sicilia e stavano vivendo uno stato d’animo tra la preoccupazione e l’impotenza, non potevo che cercare di incoraggiarti, dovevo essere forte per me e per i miei cari.

Nei giorni precedenti al mio rientro in Sicilia, mi misi in contatto con Rosario Gagliano, inutile dire quanto il suo supporto sia stato cruciale per iniziare a programmare il da farsi per la protesizzazione, non solo sul piano pratico ma anche su quello emotivo.
A causa del Covid e anche di un’infezione al moncone, non mi fu possibile recarmi al centro ROGA di fine maggio, pochi giorni prima di iniziare la chemioterapia, per fare l’impronta de mio primo invaso.

Il 10 giugno, feci i miei primi passi con la protesi, nonostante il dolore, provai una gioia immensa, mi sentivo un bambino che inizia a camminare per la prima volta!

Il sole era tornato a brillare nella mia vita e mi impegnai con anima e corpo ad imparare ad utilizzarla. I fisioterapisti della clinica dove feci la riabilitazione rimasero stupefatti nel vedermi padroneggiare la protesi in appena 9 giorni, no, non sono un prodigio, ero solo a corto di tempo e cercai di sfruttarlo al meglio prima di completare i cicli di chemio; chemio che aveva debilitato profondamente il mio corpo e, a tratti anche il mio spirito, ma che non fu capace di smorzare il desiderio di camminare come tutti gli altri, nel giro di pochi mesi iniziai a praticare sport e a fare. Passeggiate sempre più lunghe e difficili.

Nell’anno a seguire avevo solo uno scopo, testare i miei limiti, ho provato a giocare a basket, Beachvolley, corsa, trekking, persino il sup, volevo scoprire cosa non fossi in grado di fare e, se devo essere sincero, sono ancora alla ricerca.

Nulla è impossibile se lo si vuole! Questa è la realtà dei fatti.

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